Formazione

Da persona a persona

Nella pastorale vocazionale il termine ‘accompagnare’ viene principalmente declinato nella prospettiva preziosa che la Tradizione della Chiesa ci consegna e che richiama ai differenti modelli di direzione spirituale, del dialogo di coscienza, dei modi del discernimento vocazionale. Tuttavia i numeri di Evangelii Gaudium che stiamo per considerare (EG 127-129; 169-173) ci provocano a considerazioni forse inusuali, ulteriori.

Da persona a persona

In apertura del nuovo millennio, Giovanni Paolo II scrisse alcune righe di portata profetica quando indicò per la Chiesa l’esigenza di diventare casa e scuola di comunione. Nonostante l’avvertimento riguardo al pericolo (NMI 43), in molti casi si scivolò troppo in fretta dal fondamento per concentrarsi sui modi della sua declinazione pratica, si lavorò sugli strumenti esteriori della comunione dando per presupposto il necessario cammino spirituale, si cercò il frutto senza coltivare le radici: là, invero, si trova la profezia (NMI 43-45) che riconsegna l’essenziale, riconduce a due punti centrale della fede, perché mai li si perda: l’abitare in noi del mistero della Trinità, l’appartenenza di tutti al medesimo Corpo mistico.

All’uomo la vita materiale è donata nella generazione fisica e biologica dalla relazione tra i propri genitori e in quella psicologica dalla relazione graduale tra il mondo esterno e la propria individualità. Ma tutto questo è soltanto il primo passo: ogni uomo che nasce e vive nella carne (1Cor 15,47) è come un piccolo Nicodemo che ha bisogno di un grembo nuovo (Gv 3,3) per entrare nel Regno di Dio, è solo un pugno di terra cui soltanto il soffio di Dio (Gen 2,8) dona la vita eterna, «la vita semplicemente, semplicemente la felicità» (Benedetto XVI, Spe Salvi, 11).

Anche la vita dello Spirito è donata attraverso una relazione: nel battistero, grembo della Trinità, l’acqua e la Parola innescano nell’uomo l’inizio del movimento della vita nuova e lo spirito dell’uomo ascolta per la prima volta la voce dello Spirito che testimonia la sua figliolanza con Dio (Rm 8,16) gode dell’amore del Padre riversato nel suo cuore (Rm 5,5) e si scopre inserito nel Cristo, corpo nel quale scorre la sua Vita.

Come per alcuni corpi sociali, il modello della rete viene talvolta utilizzato anche per descrivere l’ipostasi ecclesiale insistendo sull’esigenza di tessere relazioni, creare legami per fare ‘comunione’ tra i suoi diversi nodi. Nella Chiesa la comunione non è da creare ma da far emergere, è donata e non costruita, non è opera dell’uomo ma presenza di Dio, appartenenza di tutti i figli allo stesso Corpo di Cristo: è da riconoscere, far affiorare, si tratta di lavorare in sinergia con lo Spirito affinché plasmi i cuori, guarisca lo sguardo perché si possa acconsentire e collaborare al suo movimento, senza interromperlo. L’intera umanità è il corpo della Sposa le cui membra vengono lentamente destate dal tocco dello Sposo così da diventare vive, credenti, perché l’incontro nuziale – l’unione perfetta nel tempo che verrà (Ap 21) – si completi e sia totale. La strada perché la fede si desti parte dall’ascolto della Parola (Rm 10,17) che suscita inquietudine, desiderio di pienezza ulteriore, anelito che muove alla nostalgia di Dio (Agostino), al desiderio pacifico e sofferto che il Regno di Dio si compia.

Questo mi sembra lo sfondo dal quale risaltano con forza e decisione gli  insegnamenti della Evangelii Gaudium, che ci invitano a lavorare sulla prossimità (EG 127) come per ricordarci la cosa più ovvia: perché il seme possa fecondare c’è bisogno di un grembo, serve un terreno comune fatto d’amore e fraternità affinché l’annuncio porti frutto. Del resto fu così anche per lo stesso Vangelo, che è nato dal kerigma pasquale raccontato di bocca in bocca tra uomini e donne che hanno creduto, ha percorso le vie della relazione e della familiarità prima di cristallizzarsi nel testo scritto capace di generare anche la nostra fede, quando non soltanto lo abbiamo letto ma ci è stato annunciato come una Parola viva (EG 129) della quale abbiamo potuto vedere i segni, prima nella storia di chi ci è stato testimone e poi nella nostra. E così anche noi, abbeverati a quella fonte (Gv 4,14) osserviamo stupiti i momenti in cui la vediamo zampillare dal nostro petto (EG 169)  e investire un nostro fratello, gustiamo la bellezza di vederlo placare la sete, rinvigorire le ossa (Ez 34,7), guarire le ferite (Sal 147,3), godere della consolazione di Dio (Is 66,13).

Ai giovani radunati a Tor Vergata nella Giornata Mondiale della Gioventù dell’anno Duemila, papa Giovanni Paolo II annunciava Cristo come il nome di quella felicità che tutti vanno cercando e qualche anno dopo Benedetto XVI regalava loro l’immagine del sorgere della fede come una fissione nucleare, energia che si propaga per contatto. Francesco ci ricorda le condizioni per l’innesco e chiunque lavori a servizio della vocazione di adolescenti, giovani e adulti non può che riconoscerne la verità: ogni itinerario di fede, qualsiasi risveglio del desiderio di Dio, ogni annuncio fecondo della salvezza passa per una relazione di fiducia, di conoscenza e di condivisione della vita nella fede.

L’accompagnamento personale dei processi di crescita

«I cristiani, e specialmente i predicatori, credono spesso di dover sempre “offrire” qualcosa all’altro, quando si trovano con lui; e lo ritengono come loro unico compito. Dimenticano che ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare». Può apparire un paradosso ma ascoltare sembra aver a che fare più con lo sguardo che con l’udito perché la vita di Dio, lo Spirito, abita la materia e la storia nelle sue profondità e là soltanto, al di sotto di quello che appare, è possibile scorgere la presenza del Mistero e intuirne la medesima partecipazione, la Comunione della Trinità.

Come la vita battesimale inizia davanti al Roveto (Es 3,14) laddove è possibile udire il nome di Dio Padre e ricevere la propria identità di figli, così l’ascolto vero dell’altro sorge quando si è capaci di rimanere scalzi (Es 3,5) nella contemplazione del medesimo mistero. La persona porta in sé la presenza – tante volte da disseppellire – dell’amore che arde ma non consuma, lo Spirito di Dio. Ascoltare è questione di occhi, di quello «sguardo di vicinanza» (EG 169) capace di riconoscere dietro a ciascun volto la preziosità di una ‘scintilla’ di Dio, di cui essere grati, da custodire, accendere, far respirare. È lo sguardo di Gesù (Mt 12,20) capace di far sentire la presenza vicina, prossima (Lc 10,33) di Dio, la sua contiguità.

È curioso che la Tradizione della Chiesa ci abbia lasciato per raccontarci l’annuncio della Salvezza non uno ma quattro Vangeli consegnandoci uno sguardo prospettico, non univoco ma pluridimensionale. Tutto quanto guardiamo dipende dal nostro punto di vista, ciò che percepiamo porta con sé tutta la nostra storia, le immagini che di una cosa o dell’altra ci siamo fatti a partire dalla nostra esperienza di vita. Con questo non significa che quanto vediamo non sia vero, ma per imparare ad ascoltare è necessario riconoscere la fatica di passare da ‘io’ a ‘tu’.

Di tale lotta la tradizione spirituale ci indica le radici, che affondano nel nostro cuore, ci insegna che nelle fibre del nostro essere è acceso un combattimento tra un vecchio uomo la cui sorgente preferita è la philautia – l’amore egoistico di sé – e un uomo nuovo alimentato dalla fonte della carità. Il primo viene dalla terra ed è schiavo della paura della morte, per questo sempre cerca invano di salvarsi da solo; il secondo viene dal Cielo e in lui la paura è stata sconfitta, la può attraversare perché verso il Cielo è in cammino per ritornare (1Cor 15,47). L’inferno – suggerisce Evdokimov – «si potrebbe rappresentare come una gabbia di specchi: l’uomo può vedere solo il proprio volto moltiplicato all’infinito, nessun altro sguardo viene a incrociare il suo». Il paradiso – il Regno di Dio – sorge quando il fratello è riconosciuto (Lc 15).

Per imparare l’arte di ascoltare – suggerisco da alcuni spunti incontrati di recente – è importante non avere fretta di arrivare subito a trarre delle conclusioni ma essere disposti a mettere in discussione il proprio punto di vista per assumere quello dell’altro concedendoci la possibilità che abbia ragione e chiedendogli di aiutarci a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva. Tale disposizione ci conduce talvolta a sentire la vertigine del disequilibrio, ad abbandonare quella staticità falsamente sicura che ci arrocca sulla nostra posizione per muovere il passo verso l’altro: solo così si impara a camminare, camminare è un equilibrio dinamico.

«Benché suoni ovvio, l’accompagnamento spirituale deve condurre sempre più verso Dio, in cui possiamo raggiungere la vera libertà» (EG 170) ed è proprio questa certezza, continuamente da rinnovare, che ci spinge ad andare verso l’altro, per invitarlo e possibilmente condurlo laddove sappiamo trovarsi la fonte della vera libertà e della pace, perché abbia la vita in abbondanza (Gv 10,10). Questo non lo dobbiamo dimenticare: da una parte è stata confusa talvolta l’apertura al dialogo con ‘il mondo’ con l’esigenza di giustificare il Vangelo, il contenuto del dogma e l’insegnamento della fede, altrove lo si è voluto imporre, cercando di insegnarlo semplicemente come una dottrina o come una esigenza soltanto morale.

Avendo a che fare in particolare con i giovani – ma ne osservo la fecondità anche parlando con gli adulti – trovo che sia fondamentale accompagnarli alla riscoperta della fecondità della Scrittura e alla bellezza della fede, ad approfondire la buona notizia contenuta nei suoi dogmi essenziali, attraverso una teologia semplice, che sappia far emergere il contenuto vitale del credere in modo che possa essere goduto prima che annunciato, assorbito nella sua verità – non meramente concettuale – per maturare l’esperienza del suo annuncio di vita (EG 171) e imparare così ad abitare i luoghi che ne sono la fonte: l’eucaristia, la preghiera, l’oggi della storia. Così si possono iniziare insieme sentieri di crescita nella fede e nella conoscenza di Dio, capaci di smuovere le zolle dell’adama’ per vedere fluire in essa lo Spirito, la Vita di Dio.

Il luogo di questo accadere è il Cristo, il suo corpo che è la Chiesa. La spiritualità della comunione sottolinea profeticamente il comandamento nuovo dell’amore fraterno, specchio della Trinità, unico vero compito dei credenti e segnale per tutti del vero discepolato (Gv 13,35). Nient’altro abbiamo da fare se non tessere i legami della fraternità, lasciar sorgere dalla carne delle nostre comunità, parrocchie, famiglie la vita bella di Dio, la sua comunione che sa di quella franchezza capace di accogliere il dissenso, che è fatta dell’umiltà di chi sa di costruire insieme e con lo stesso obiettivo, che riconosce la presenza del male ma si occupa del bene perché solo così può essere vinto. Ne godremmo personalmente e diventeremmo attraenti – non certo secondo i criteri del ‘mondo’ – per tutti coloro che errano in cerca di vita, in cerca di un Padre, come figli dispersi (EG 170).

Accompagnatori esperti

Dalla finestra della stanza in cui scrivo in questo pomeriggio di fine estate si può vedere il massiccio del Monte Rosa, il più esteso delle Alpi e con i colori di questo pomeriggio in cui la neve ancora abbondante si tinge di arancione fa venire voglia di scalarne la cima. L’impresa non è per tutti, è necessario essere allenati, affidarsi a gente esperta ma soprattutto è fondamentale non soltanto desiderare giungere fino in cima, bisogna volerci andare.

Fin qui ho voluto sottolineare quella sorta di lavoro preparatorio, l’inizio che mi sembra fondamentale e per il quale sono convinto dovremmo spenderci ancora più energie, tempo e passione; per compiere l’opera del Battista e di tutti i ‘preparatori’ del Vangelo: colmare valli, spianare colline, condurre gli uomini alla possibilità dell’incontro con Dio. Ce n’è un secondo – non sempre così distinto cronologicamente, ma logicamente sì – che è il lavoro dell’accompagnamento spirituale più propriamente detto e che ha lo scopo di condurre le persone, che ormai lo desiderano, fin sulla cima del monte, in quell’opera tesa a lasciar permeare la propria psiché, i propri pensieri, sentimenti, volontà dalla vita di Dio perché anche le proprie azioni diventino tutte di luce mosse dalla carità: perché la santità desiderata sia anche voluta e possa trasparire dagli atti della nostra vita.

«Più che mai abbiamo bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito, per proteggere tutti insieme le pecore che si affidano a noi dai lupi che tentano di disgregare il gregge» (EG 171).

Uomini e donne esperti della vita spirituale, dei movimenti del cuore dell’uomo, delle dinamiche della nostra terra, fatta di mente e di corpo, capaci di riconoscere l’agire dei lupi rapaci che abitano sia fuori – vestendosi da maestri falsi che introducono fazioni e sfruttano con false parole per la loro cupidigia (2Pt 1,1-3) – che dentro di noi. È dal di dentro, infatti, che escono i propositi di male (Mt 7,21).

Esperienza, esperire porta con sé il significato dell’aver provato, saggiato, la saggezza di chi ha camminato nella vita non come uno spettatore distratto ma come un uomo che ne ha scandagliato il mistero e sa che cosa si muove fuori e dentro di sé. Lo spirituale non è qualcosa di etereo o evanescente, avulso dalla realtà ma è immerso in essa, nell’uomo e nella storia. L’uomo spirituale è terrestre, conosce bene la pasta di cui è fatto e di cui è composta tutta la comunità umana, è accorto, attento, conosce l’inganno del serpente (Gen 3,4) e le parole dell’uomo vecchio che è dentro di sé e di quello che abita la vita dei fratelli. Non si spaventa, non teme. L’opera di Dio consiste fin dall’inizio nel fare luce (Gen 1,2): per mettere ordine occorre guardare, considerare, per riconoscere ciò che è buono da ciò che è cattivo, ciò che conduce alla morte o porta alla vita e decidere per l’una o per l’altra (Dt 30,19) nella libertà che si consolida pian piano.

Come ogni guida saggia di montagna, di tutto questo forse mai ci diremo davvero e del tutto esperti, tuttavia attraverso gli strumenti di studio e approfondimento offerti da molte realtà ecclesiali, nella personale esperienza a lasciarsi curare e accompagnare (EG 172), nella frequentazione assidua dell’ascolto dei sentieri percorsi dai cuori degli uomini, possiamo imparare a riconoscere in noi quel graduale accrescimento di sicurezza, sapiente e non spavalda, che ci permetterà di offrire il nostro tempo a chi ci chiede di essere accompagnato. Di questo nella pastorale dei giovani in particolare c’è un immenso bisogno e una grande richiesta, l’esigenza di guide autentiche che siano padri capaci di generare nella fede (1Cor 4,15) è prioritaria per il servizio della loro fede e della loro vocazione.

Considerazioni

A conclusione vorrei suggerire alcuni nodi che intuisco come portatori di futuro e mi sembrano possano aprire prospettive feconde per la pastorale vocazionale, non solo di adolescenti e giovani. L’azione della Chiesa è di per sé vocazionale, altro non c’è da fare se non farsi prossimi e introdurre gli uomini alla relazione con Dio, alla vita da figli. Trovo che sia importante non smettere di riflettere sui termini in quanto il discorso sulla vocazione rischia di assumere due derive pericolose se si considerano in maniera disgiunta i due soggetti implicati – Dio e l’uomo – e le loro rispettive libertà. Ogni prospettiva incentrata unicamente sull’uomo focalizza l’attenzione (e il discernimento) su caratteristiche personali, talenti o qualità che finalmente troverebbero il loro sbocco in una scelta di vita professionale o ‘religiosa’. Dall’altra – nella quale la libertà dell’uomo tende a scomparire di fronte a quella di Dio – la vocazione viene intesa come un progetto preparato fin dall’eternità, una strada tracciata nei minimi particolari, attraverso i quali l’uomo è condotto e vi può soltanto aderire… Ma questo porta il nome di destino e non sembra aver molto a che fare con la fede cristiana. L’errore contenuto in entrambe le prospettive è mantenerle disgiunte quando, invece, nella vita di ciascuno l’opera di Dio è sempre compiuta in sinergia con l’uomo. Lavorare per favorire l’inizio e la crescita della vita dello Spirito è opera fondamentale dell’agire pastorale della Chiesa, il servizio alla fede di tutti (1Pt 2,5). Chiunque si metta alla scuola del Maestro troverà certamente il luogo nel quale spendere, versare la propria vita, scoprirà come costruire con Dio la propria vocazione. Sicuro.

Innescare processi e accompagnarli. Non basta mettere al mondo per far crescere, non è sufficiente seminare per raccogliere il frutto. «Il tempo è superiore allo spazio […]. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi» (EG 222-223). Non serve a nulla un evento o un ‘momento forte’ di incontro con il Signore se non si acconsente al suo sviluppo, se non è accompagnato. La vocazione pastorale della Chiesa non può esimersi dallo studiare e proporre itinerari seri di annuncio del Vangelo, di approfondimento della fede, di introduzione alla preghiera e alla vita sacramentale, nella prospettiva dell’accompagnamento, di cui abbiamo ampiamente detto sopra. I giovani hanno sete di parole vere e vengono a cercarle.

Percorsi di questo tipo sono favoriti da spazi di vita, luoghi abitati nei quali la fede non è soltanto raccontata ma vissuta, nella semplicità che tutti ci caratterizza. Intendo case, comunità di vita consacrata, ambienti parrocchiali nei quali non ci si incontra soltanto per la ‘riunione’ ma che possano essere sentiti come ‘casa’. E una casa diventa tale se chi risiede vive e opera nella concordia. «La testimonianza di uno solo, che lo si voglia o no, porta la firma di quello soltanto. La testimonianza di una comunità fedele, quando lo è, porta la firma del Cristo». La casa, la famiglia è il luogo in cui i genitori imparano a distinguere i punti del cammino: lo sviluppo non si può forzare, tocca imparare l’attesa, la vicinanza spesso difficile, tocca attraversare momenti lieti e tristi, stimolare, condurre, consigliare, riprendere, suggerire, orientare. Così è anche per lo sviluppo della fede, impegnativo ma bello, consolante, fecondo. L’uomo è fatto per dare la vita, per generare.

don Michele Gianola
Articolo pubblicato su Vocazioni 5 (2016(

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